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Esiste democrazia senza unità?


1. Introduzione generale al tema.

Centocinquanta anni dopo l’Unità d’Italia più di una voce mette in discussione l’indivisibilità del Paese; altri ne invocano con urgenza la riaffermazione, a salvaguardia di quel progetto comune fondamento di una repubblica democratica; molti muovono alla ricerca di una o più identità comuni.

L’identità italiana ha bisogno di una memoria collettiva per costruire il presente, a partire dal suo passato, che è un passato fatto di inclusioni ed esclusioni, di conflitti e di ricomposizione continua delle reti di relazioni.

Essere consapevoli della propria italianità non è affatto scontato. La coscienza dell’identità ed i problemi a essa legati sembrano emergere soprattutto nei momenti di crisi: quando le categorie e le definizioni della realtà mutano o si dimostrano inattuali.

Lo Stato Italia è l’assetto istituzionale che esercita la sovranità su un territorio; la nazione Italia è (ancora) una realtà culturale omogenea. Il processo di nation-building è un cantiere sempre aperto. Le istituzioni operano come strumenti di costruzione della nazione, alimentando un’identità collettiva. Ma Italia è anche un’idea politica e come tutte le idee politiche ha avuto un inizio e potrà avere una fine. Inoltre, mai come oggi l’idea di Italia appare stanca e logora, e le tentazioni a fare a meno dell’idea Italia sono suadenti: al nord come al sud.

Occorre quindi interrogarsi sulla storia passata e su quella presente, per provare a rispondere collettivamente alle domande: “A che serve l’Italia?”, “Cosa ci tiene insieme?”.


2. Alcuni brani e testi di riferimento.

Roberto Cartocci

Come si distrugge l’identità italiana

Intervento proposto durante il convegno “Identità italiana tra Europa e società multiculturale”

[…] Da un lato la storia attesta l’indiscutibile esistenza di un’identità italiana; dall’altra la storia attesta una irriducibile pluralità delle identità che coesistono e si intrecciano. In entrambi i casi si tratta di uno sguardo rivolto esclusivamente al passato, che presuppone un’idea “solida” di identità collettive: le identità di oggi come eredità del passato.

[…] le identità collettive non sono realtà statiche. Se non “liquide” sono senz’altro “fluide” proprio in quanto vive. In linea di principio le identità collettive nascono e muoiono, come ogni altra costruzione umana sotto il cielo. E dunque continuamente si trasformano, si logorano e si rigenerano. Dobbiamo dunque procedere ad alcune precisazioni che ci consentiranno di mettere in evidenza perché le identità si possono distruggere, o comunque danneggiare.

a) La prima precisazione riguarda i processi attraverso cui si coagula l’identità di un popolo, che ci permette di vedere quanto poco ci sia di “naturale” in questa identità.

b) La seconda precisazione riguarda il concetto di nazione, che deve essere distinto da un lato dal concetto di identità collettiva, dall’altro dal concetto di stato.

c) La terza precisazione serve a spiegare la centralità dell’assetto istituzionale democratico come elemento fondante dell’identità di un popolo, storicamente aggiornata agli attuali equilibri culturali, economici e sociali. Affronterò nell’ordine queste precisazioni analitiche per svolgere poi alcune considerazioni sui processi distruttivi che logorano l’identità degli italiani.

Ethnos: il tipo ideale dell’identità di un popolo

[…] Tra le diverse manifestazioni dell’esperienza simbolica – l’amore, l’arte, l’ideologia, la religione – troviamo anche l’identità collettiva di un popolo. Questa costituisce l’esito riuscito di un processo di trasfigurazione simbolica, condiviso dai componenti di una collettività. Si tratta dell’ethnos, inteso come complesso simbolico intorno a cui i diversi popoli costruiscono il principio della loro identità collettiva e fondano la loro integrazione politica e culturale.

Inteso come tipo ideale, l’ethnos è costituito da cinque componenti,“ovunque e sempre presenti”:

l’epos (vale a dire la trasfigurazione simbolica di elementi della memoria del passato);

il logos (la lingua che viene trasfigurata come simbolo che definisce, in senso etimologico, la collettività);

l’ethos (sacralizzazione dell’insieme di norme e di istituzioni che regolano la socialità del gruppo);

il genos (la stirpe, i legami di sangue, il patrimonio genetico)

il topos, la terra, come immagine simbolica della madrepatria, e del territorio vissuto come valore in quanto matrice della stirpe e dei prodotti della natura.

[…] Non esiste uno status ontologico particolare per gli oggetti che vengono trasfigurati in simboli, e che si riferiscono “ad ogni più vario aspetto della realtà naturale, sociale e culturale”. La loro storicità, la molteplicità dei contenuti e la pluralità di significati che ad essi vengono conferiti rende l’identità collettiva profondamente calata nelle contingenze ambientali, storiche, politiche e sociali di un popolo. […]

Identità collettiva, nazione, stato

La nazione costituisce un caso particolare, storicamente determinato nei processi politici e culturali dell’Occidente tra XVIII e XIX secolo, dell’ethnos, Conviene sottolineare questo punto, poiché

risulta particolarmente rilevante nel caso italiano. Non c’è perfetta sovrapposizione, sul piano analitico, tra identità di un popolo e identità nazionale. […] L’identità nazionale è un caso particolare di identità collettiva, in cui un elemento rilevante della combinazione specifica dell’ethnos è costituito dalla trasfigurazione simbolica delle istituzioni politiche e dei legami interpersonali tra sconosciuti.

[…]

Più in generale: nell’ambito del secolare processo di mobilitazione e inclusione della popolazione all’interno dell’architettura istituzionale dello stato, gli individui ridefiniscono le loro identità personali e collettive. Stato e nazione, dunque, si richiamano strettamente, fino a formare, come ricordato sopra, una espressione unica. Nel linguaggio ordinario, poi, vengono sovente usati come sinonimi. Ma è opportuno sottolineare le differenze sul piano analitico. Per stato intendiamo l’assetto istituzionale che esercita la sovranità su un determinato territorio. […]

Per nazione si intende invece una realtà culturale omogenea, di tipo olista. Ciò significa che la nazione è qualcosa di diverso dalla somma dei suoi componenti – i quali si riconoscono vicendevolmente come affini. Mentre la formazione dello stato comporta un’opera di integrazione politica e giuridica da parte dell’élite, la costruzione della nazione consiste in un’opera di omogeneizzazione culturale tra il centro e le periferie sociali e geografiche del sistema.

La formazione dello stato si fonda sulla definizione e affermazione di un principio di legalità sovraordinato a tutti gli altri; la costruzione della nazione consiste nel distruggere precedenti identità vernacolari e lealtà locali e nel creare e alimentare un nuovo principio di legittimità, ancorato ad una costellazione di valori.

Se questi valori restano solo proclamati nelle occasioni liturgiche ma non praticati nella vita quotidiana, la nazione corre il rischio di essere una formula vuota, dietro cui continuano a sopravvivere identità di ambito più ristretto e in competizione tra loro. […]

In termini analitici stato e nazione designano realtà e processi diversi, ma nella concreta dinamica storica il loro rapporto reciproco non è univoco. In generale, nella storia europea, lo stato precede e costruisce la nazione, mediante un processo top-down di durata plurisecolare: è questo il caso di Francia, Svezia, Danimarca, Inghilterra, e di tutti quelli nati prima della Pace di Westfalia (1648).

L’Italia rientra tra quei casi che appartengono alla seconda ondata di formazione degli stati, quella successiva alla Rivoluzione francese (insieme a Germania, Grecia, Belgio e, importante parallelo,

a tutti gli stati dell’America Latina). In questi casi di formazione recente dello stato si ritiene che il processo sia bottom-up, cioè la nazione abbia preceduto lo stato. Infatti tutti i movimenti patriottici si muovono in base a una fondamentale rivendicazione: il diritto di una nazione, di cui il movimento è interprete autentico e unico rappresentante, all’autonomia politica mediante uno stato indipendente. […]

Dunque, se il processo di nation-building è imperfetto e troppo recente, esso tende a riverberarsi nel tempo sui processi politici e la qualità della democrazia. Anche per questa strada in Italia il dibattito sulla nostra identità (e i suoi limiti veri o presunti) si concentra sul passato nella ricerca dell’origine dei problemi di oggi.

Le istituzioni democratiche come simboli

I contenuti intrinseci al costrutto di nazione non sono fissati una volta per tutte, ma variano al variare dei contesti e dei periodi storici. Ciò significa che abbiamo il compito di riflettere su quali

sono le origini degli imperativi categorici che innervano l’ethnos qui e ora. E’ questo un passo decisivo per affrontare la tematica dell’identità nazionale nei termini in cui si pone oggi nei sistemi democratici, e quindi per analizzare più da vicino i limiti dell’identità collettiva degli italiani, secondo una chiave che non si limita a considerare quello che il nostro passato ci ha lasciato in eredità.

Infatti, le dinamiche politiche e sociali sviluppatesi nell’ultimo dopoguerra nei paesi occidentali hanno portato in primo piano il sistema di diritti e doveri di cittadinanza (intesa non solo in senso

giuridico ma anche – e soprattutto – in senso politico e sociale) come elemento costitutivo dell’identità nazionale. Sono le istituzioni stesse del welfare state democratico il fuoco della trasfigurazione simbolica capace di alimentare, in termini storicamente aggiornati, l’idea di un comune destino che lega tra loro, mediante un’obbligazione reciproca, i cittadini dello stesso paese. […]

E’ la trasfigurazione simbolica delle istituzioni del welfare state democratico che ristabilisce l’equilibrio, assicurando il collante mediante il lato dei doveri di cittadinanza: una forza uguale e di segno contrario, che subordina gli interessi individuali a quelli verso la collettività (il bene comune, appunto). In sintesi: il termine “nazione” designa un costrutto analitico che coglie quello che possiamo definire con un ossimoro: cioè una obbligazione morale liberamente vissuta verso la collettività. Se questa obbligazione morale è più labile, allora il senso della nazione è più debole; e così toccherà allo stato cercare di rimediare, ad esempio cercando di imporre con disposizioni di legge quanto una disciplina sociale liberamente accettata e condivisa non è in grado di garantire. […]

Il caso italiano: l’ethos proclamato contro l’ethos praticato

[…] Non solo la pervasività delle istituzioni, ma anche il loro rendimento sono decisivi per la qualità della vita dei cittadini. E’ su questo terreno che si gioca la partita dell’equilibrio tra la dinamica individualista dei diritti di cittadinanza e le esigenze oliste di coesione sociale. Queste ultime non possono essere garantite in alcun modo dalla condivisione della lingua o della religione, meno che mai dal topos o dal genos, che possono solo animare speculazioni politiche, difese razziste, barriere illusorie – tutti espedienti che allontanano e rendono più difficili le risposte efficaci alle sfide.

La promessa della cittadinanza costituisce un impegno carico di rischi e di opportunità. Tale promessa proclama e presuppone un ethos universalista che amministra con equità e giustizia, valorizza meriti e talenti, promuove uguaglianza. E’ su questo punto che in Italia è possibile mettere in dubbio la capacità delle istituzioni di operare come strumenti di costruzione della nazione, alimentando un’identità collettiva. L’ethos universalista che il tipo ideale dell’ethnos presuppone, e che le istituzioni repubblicane proclamano, nella realtà quotidiana viene contraddetto dall’ethos particolarista che costituisce un tratto culturale prevalente, e che i processi politici dell’unificazione e della democratizzazione hanno solo in parte scalfito. Si tratta di un tratto ben noto agli studiosi, denominato come “familismo amorale”, “basso continuo particolarista”, “arretratezza socio-culturale” […]

Istituzioni che funzionano mantengono la promessa della cittadinanza, accrescono la loro legittimità e si trasformano in valori positivi; il contrario avviene quando le istituzioni sono inefficienti o perseguono fini diversi da quelli previsti – che è quanto immancabilmente avviene quando si assoggettano alle regole imposte da una moralità particolarista e clientelare. Esse diventano dis-valori e smentiscono il loro scopo di regolare la convivenza civile. Da strumenti di integrazione diventano strumenti di disgregazione sociale, alimentando non solo sfiducia ma anche risentimento e recriminazione. Inevitabile il circolo vizioso, visto che il particolarismo paga: come tutti i modelli culturali, finché permette di conferire senso al mondo e risolvere problemi non c’è motivo di accantonarlo!

Le istituzioni cattive maestre

Non mancano, purtroppo, gli esempi di pessima pedagogia delle istituzioni. Si pensi alla sistematica mortificazione dei valori del merito e della giustizia dovuta al ricorso dei “furbi” alle “raccomandazioni” (in italiano è ricco il lessico del cinismo) e all’elargizione di benefici clientelari allo scopo di alimentare consensi elettorali. Si pensi soprattutto a quanto merito, equità e giustizia siano stati sacrificati da quel grande strumento di disuguaglianza che è il debito pubblico accumulato nel corso dei decenni scorsi. […]

Gli adolescenti e i ventenni di oggi crescono in un Paese che può offrire loro molte meno opportunità e molti meno diritti sociali rispetto ai loro padri. Si tratta di una responsabilità storica di un’intera classe dirigente, che ha usato le istituzioni come arene per assecondare una società civile incline al particolarismo, in cambio di vantaggi politici a breve termine. Potremmo continuare a lungo, in questo italianissimo catalogo delle molte vie attraverso cui le istituzioni erodono, invece di alimentare, l’identità collettiva.[…]

Ogni riferimento alla bandiera, all’inno, alla nazionale di calcio, a Cuore di De Amicis, al Risorgimento, al fascismo o alla Resistenza, è utile per stilare una diagnosi del nostro stato di salute come popolo e soprattutto per individuare i molteplici processi attraverso cui la nostra identità si crea, si alimenta e si logora. Ma non possiamo permetterci di guardare solo al nostro passato, e tantomeno alimentare – in modo strumentale e irresponsabile – antiche fratture brandendo il gladio dei revisionismi e dei processi alla storia. Altrettanto vacuo è guardare al passato per sostenere il nostro vacillante orgoglio nazionale con la memoria romana (sic!) e i fasti del Rinascimento.

L’identità collettiva degli italiani è una questione di tutti i giorni, e inoltre è più un problema di prospettive future che di eredità storiche. Lo sguardo al passato ci conferma continuamente che la nostra identità è fatta in larga misura di differenze […] che si riproducono e si alimentano nel tempo. Considerato che stiamo andando velocemente verso un mondo in cui il meticciato è la regola, quello che fino ad ieri era considerato un limite oggi può diventare una risorsa.

In ogni caso il nostro futuro dipende dall’esito della battaglia tra i due orizzonti etici. Solo se l’ethos universalista riuscirà a prevalere sull’ethos particolarista dei molteplici egoismi degli italiani

saremo in grado di superare le sfide del complicato mondo del XXI secolo.


Edmondo Berselli

Orgoglio che va, orgoglio che viene

La Repubblica, 16 marzo 2008

Dirsi orgogliosi dell’Italia o degli italiani: una parola. […]

Per essere orgogliosi, ci vuole “qualcosa”: un’entità, o almeno un’identità. […]

Discorso particolarmente complicato per l’Italia, perché la penisola è una somma di entità e di conseguenza il riflesso di cento identità, grazie ai suoi cento campanili. Sicchè bisognerebbe essere capaci di essere soprattutto orgogliosi delle differenze. Essere capaci di trattarle come un valore, e non come una nevrosi: anche se ci sono fior di movimenti politici che hanno investito sull’avversione interna, sulla differenza percepita come una leva di animosità intestina. Tanto più che se si vuole prendere l’identità italiana contemporanea non ci si può limitare ad elencare tutti i tasselli del puzzle: oggi infatti l’identità è data anche da ciò che pensano gli altri, di noi. E basta scorrere qualsiasi giornale straniero per ritrovare ogni volta i soliti luoghi comuni. […]

Insomma, l’orgoglio per l’Italia sembra essere un sentimento che va e viene, registrabile sono da un oscilloscopio. […] E allora si tratta di osservare selettivamente il patrimonio di conquiste e di traguardi raggiunti. Che non mancano mai sotto il profilo sportivo, per esempio, sul piano artistico e sul terreno del design, dell’intrattenimento, del savoir vivre, del fun. Ma che invece latitano non appena si sfiorano classifiche di altro tipo, per esempio quelle dell’efficienza della giustizia o il rispetto delle clausole fiscali. […]

Ecco, il fatto è che esistono diverse, forse infinite Italie, non un’Italia sola di cui essere più o meno orgogliosi. L’Italia dei rifiuti, e prima del colera, e l’Italia della bellezza, dell’arte, dell’industria, per esempio. Forse conviene scegliere dal catalogo possibile un paio di Italie decenti, e limitare l’orgoglio a quelle.


Dacia Maraini

Quell’Italia in esilio che guarda avanti

Corriere della Sera, 28 luglio 2009

A volte allontanarsi dal proprio paese aiuta a capirlo meglio. Per esempio si può scoprire che esiste un’altra Italia, molto più grande di quella che siamo abituati a pensare chiusa nei suoi confini. Un Italia senza frontiere, molto diversa da come ci immaginiamo noi italiani. Una Italia fatta di figli e nipoti di emigranti che nello sforzo di integrarsi in Paesi difficili hanno perso la familiarità con la nostra lingua, ma si scoprono, alla terza o quarta generazione, innamorati delle loro radici, curiosi di una lingua dimenticata ma presente da qualche parte nella memoria sotterrata, pronti a creare nuovi legami con il passato. […]

Questo popolo in esilio, […] si sente libero di guardarsi indietro, di scoprire le meraviglie di una storia antica e piena di sorprese, di appartenere ad una cultura che ha condizionato il mondo con le sue idee, le sue scoperte, i suoi travagli mentali, le sue spericolate immaginazioni. È un popolo che non legge i nostri giornali, non vede le nostre televisioni, si nutre attraverso la rete, si riconosce nei film, nelle canzoni, e nei libri italiani che circolano per le strade non istituzionali. […]

Questa Italia che sta cercando mentalmente casa, che è curiosa e aperta, seria e disposta a mettere in discussione molte sicurezze, ha forme nuove, inattese e imprevedibili. Comunque si tratta di persone che non sono interessate all’Italia dei campanili, e nemmeno ad un parlamento asfittico e litigioso, ma cercano una Italia nuova, tutta da costruire, anche con la loro partecipazione. Una Italia che si riconosce nella memoria consapevole del suo creativo e fertile passato e vuole primeggiare ancora, ma sul piano delle idee e delle scoperte, come è accaduto in tanti momenti felici della nostra storia.


Elenco delle cose di cui siamo fatti
tratto dal programma televisivo
Vieni via con me, 29 novembre 2010

La lettera 22 di Indro Montanelli

La chitarra di Fabrizio De Andrè

Il cestino di piazza della Loggia a Brescia

Il megafono di Federico Fellini

La pipa di Luciano Lama

La borsa di Massimo D’Antona

La 500 di Luigi Calabresi

Gli occhiali spessi di Vittorio Foa

Il camice di Umberto Veronesi

L’ orologio della stazione di Bologna

Il microfono di Luigi Tenco

Il sorriso di Enrico Berlinguer

Gli scarpini di Roberto Baggio

La tonaca di don Lorenzo Milani

La bicicletta di Marco Biagi

La barba di Tiziano Terzani

Gli occhiali scuri di Pier Paolo Pasolini

L’aereo di Ustica

La spilla di Rita Levi Montalcini

Gli occhialini tondi di Alcide De Gasperi

La coppa del mondo del 1982

La costituzione italiana

Il ciak di Sergio Leone

Il pianoforte di Maurizio Pollini

Il taccuino di Ilaria Alpi

Il cappello di Luciano Pavarotti

Le pipe di Sandro Pertini e Enzo Bearzot

Le mani di Walter Bonatti

La Roma di Anna Magnani

L’Alfa Romeo di Tazio Nuvolari

Le mani di Eugenio Montale

La borraccia di Coppi e Bartali

Lo sguardo di Marcello Mastroianni

La sigaretta Alda Merini

Il papillon di Luigi Pirandello

La luna di Papa Giovanni

Gli occhi di Sofia Loren

La bombetta di Totò

La fascia di Anna Maria Ortese

Le rughe di Italo Calvino

I macaroni di Alberto Sordi

Gli occhiali di Enzo Ferrari

Il caffè di Eduardo De Filippo

Le sopraciglia di Alberto Moravia

La malinconia di Aldo Moro

La grazia di Roberto Benigni

La voce di Vittorio De Sica

La mehari di Giancarlo Siani

Il dolore di Primo Levi

La sciarpa di Walter Tobagi


Elenco di frasi di Enzo Biagi sull’Italia
tratto dal programma televisivo
Vieni via con me, 29 novembre 2010

Gli italiani non esistono. Nessuno è riuscito neppure a catalogarli. Venire al mondo a Palermo o a Catania, è già una classifica. Qui si può morire di mafia come di cassa integrazione.

Chi sottovaluta gli italiani sbaglia. Abbiamo risorse imprevedibili. Quando un partito va male, i responsabili non si sgomentano: lo rifondano.

Gli italiani campano soprattutto per quello che non dipende da loro: il sole, la bellezza dei luoghi, la bontà dei cibi, e le opere d’arte che hanno ereditato e di cui non si curano gran che.

Ogni ottocento italiani, uno è presidente: del condominio, della Pro Loco, della squadra di calcio, di una qualche confraternita di mangioni.

Qui si condona, si esonera, si appella, si grazia. Non si previene mai, se va bene si risana. Il bilancio, il fiume inquinato, la finanza pubblica.

E’ sempre stato difficile avere vent’anni, e non sarà mai semplice essere italiani.

Eppure così com’è, ingiusta e anche crudele, l’Italia io la trovo insostituibile. Non è la migliore, ma è umana. Ha rispetto della vita. Chiesero alla moglie di Manzù perché le piacevano le sculture del marito. “Perché le fa lui”, disse. Mi piace l’Italia: perché mi ha fatto.


Figlio mio, lascia questo paese”

di Pier Luigi Celli

La Repubblica, 30 novembre 2009

Figlio mio, stai per finire la tua Università; sei stato bravo. Non ho rimproveri da farti. Finisci in tempo e bene: molto più di quello che tua madre e io ci aspettassimo. È per questo che ti parlo con amarezza, pensando a quello che ora ti aspetta. Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio.
Puoi solo immaginare la sofferenza con cui ti dico queste cose e la preoccupazione per un futuro che finirà con lo spezzare le dolci consuetudini del nostro vivere uniti, come è avvenuto per tutti questi lunghi anni. Ma non posso, onestamente, nascondere quello che ho lungamente meditato. Ti conosco abbastanza per sapere quanto sia forte il tuo senso di giustizia, la voglia di arrivare ai risultati, il sentimento degli amici da tenere insieme, buoni e meno buoni che siano. E, ancora, l’idea che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel lavoro che incontrerai.
Ecco, guardati attorno. Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l’affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza.
Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all’attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai. E’ anche un Paese in cui, per viaggiare, devi augurarti che l’Alitalia non si metta in testa di fare l’azienda seria chiedendo ai suoi dipendenti il rispetto dell’orario, perché allora ti potrebbe capitare di vederti annullare ogni volo per giorni interi, passando il tuo tempo in attesa di una informazione (o di una scusa) che non arriverà. E d’altra parte, come potrebbe essere diversamente, se questo è l’unico Paese in cui una compagnia aerea di Stato, tecnicamente fallita per non aver saputo stare sul mercato, è stata privatizzata regalandole il Monopolio, e così costringendo i suoi vertici alla paralisi di fronte a dipendenti che non crederanno mai più di essere a rischio.
Credimi, se ti guardi intorno e se giri un po’, non troverai molte ragioni per rincuorarti. Incapperai nei destini gloriosi di chi, avendo fatto magari il taxista, si vede premiato – per ragioni intuibili – con un Consiglio di Amministrazione, o non sapendo nulla di elettricità, gas ed energie varie, accede imperterrito al vertice di una Multiutility. Non varrà nulla avere la fedina immacolata, se ci sono ragioni sufficienti che lavorano su altri terreni, in grado di spingerti a incarichi delicati, magari critici per i destini industriali del Paese. Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico. Potrei continuare all’infinito, annoiandoti e deprimendomi.
Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell’estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati. Probabilmente non sarà tutto oro, questo no. Capiterà anche che, spesso, ti prenderà la nostalgia del tuo Paese e, mi auguro, anche dei tuoi vecchi. E tu cercherai di venirci a patti, per fare quello per cui ti sei preparato per anni.
Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché.

Adesso che ti ho detto quanto avrei voluto evitare con tutte le mie forze, io lo so, lo prevedo, quello che vorresti rispondermi. Ti conosco e ti voglio bene anche per questo. Mi dirai che è tutto vero, che le cose stanno proprio così, che anche a te fanno schifo, ma che tu, proprio per questo, non gliela darai vinta. Tutto qui. E non so, credimi, se preoccuparmi di più per questa tua ostinazione, o rallegrarmi per aver trovato il modo di non deludermi, assecondando le mie amarezze.

Preparati comunque a soffrire.

Con affetto,
tuo padre


Risposta di Benedetta Tobagi a Celli

La Repubblica, 2 dicembre 2009

Caro Direttore, immagino che la lettera di Pier Luigi Celli, “Figlio mio, lascia questo paese” sia nata come una provocazione.

[…] Dalla penna di un padre, tanto più in questo caso, considerata la posizione pubblica che ricopre, sarebbe stato bello leggere del suo impegno accademico per tentare di rinnovare la classe dirigente, ritrovare – magari – un´analisi degli ostacoli incontrati, un atto di denuncia del mondo che conosce o ha conosciuto, con fatti, dati, numeri e nomi. Parole pensate per continuare ad agire sul proprio frammento mondo, nel tentativo di renderlo, anche se in piccolo, più abitabile, anche per il figlio. Parole che insegnassero al figlio il coraggio e l´ostinazione dell´impegno, anche se le circostanze ambientali sono le più scoraggianti. Invece il padre, confessato il proprio personale fallimento, incita il figlio ad andarsene.
Conta solo il privato, il proprio interesse: non fare il mio errore, pensa a te e vattene lontano. A lui, istruito, intelligente, brillante, non affida il messaggio di mettercela tutta, a costo di delusioni, frustrazioni, sacrifici, per risollevare le sorti del Paese, perché spendersi per il bene comune, proprio quando le cose vanno male, “qualunque cosa succeda” (per citare l´avvocato Giorgio Ambrosoli) è un´impresa che riempie di senso la vita. Ai figli tocca l´onere di affrontare questo Paese ferito e travagliato e anche denunciarne i mali, ma i padri non dovrebbero abdicare al proprio ruolo. […]
La lettera di Celli si basa sull´assunto che oggi l´alternativa è tra rassegnarsi allo schifo o scappare e salvare se stessi. Non è così. Le “passioni grigie”, come le ha chiamate Remo Bodei (onestà, onore, rispetto di sé e dell´altro, far bene il proprio lavoro, non accettare corruzione e intimidazione) non sono morte. Girando per l´Italia, soprattutto frequentando il circuito “invisibile” delle associazioni culturali, o i poli di una rete come “Libera”, si incontra tanta gente che lavora, e molto bene, e soprattutto con i ragazzi, per creare anticorpi a una situazione che a troppi sembra senza speranza. Luoghi dove la denuncia di ciò che non va si accompagna sempre ad azioni costruttive: magari a livello locale, su piccola scala: ma l´umiltà del passo dopo passo è la linfa e la premessa di ogni vero cambiamento.
Penso a una sostituto procuratore che ha speso la vita a cercare di contrastare i reati ambientali e la criminalità organizzata. Con frustrazioni e difficoltà quasi inimmaginabili. Quando si scoraggia, pensa alle parole di suo padre, avvocato e sindaco, che le ha trasmesso il senso del valore di compiere il proprio dovere. Si rende conto che il problema è strutturale e occorrerebbe modificare la mentalità dei cittadini. Continua dunque a fare il suo lavoro, però investe tempo anche in incontri pubblici per sensibilizzare la popolazione locale sulle problematiche ambientali. Ha una figlia che studia legge. In Italia. Penso a chi si rompe la testa per cercare di immaginare modi, linguaggi, strumenti nuovi per trasmettere ai ragazzi una cultura del rispetto delle regole, linfa perché domani l´Italia sia un po´ diversa. Ci sono padri che vivono con lo spettro di dover lasciare il paese, un domani, perché non riescono più a mantenere se stessi e la famiglia. Un giovane freelance, classe 1972, orgoglioso padre di una bimba di un anno (la madre, neanche farlo apposta, è una hostess di terra che ha sofferto tutte le tempeste del caso Alitalia): «Certo che la tentazione di andarsene guardandosi in giro è forte. Ma sarebbe una fuga. Adesso sono nel pieno delle mie forze, e voglio tentare tutto il possibile per darle un futuro qui». Questo è parlare. Da uomo, da padre, da italiano. Sono molto contenta per sua figlia, e anche per me. Mi ha fatto sentire meno sola. Ho trentadue anni, sono molto indignata, ma voglio continuare a vivere in Italia. Con tante scorribande all´estero (e invito tutti i ragazzi a fare lo stesso, se possono!), per prendere ciò che qui non trovo, per metterlo nel mio lavoro, per seminare nel mio Paese. C´è troppo da fare e c´è bisogno di tutti.

Benedetta Tobagi


3. L’identità attraverso le canzoni

  1. Io non mi sento italiano, Giorgio Gaber

Parlato: Io G. G. sono nato e vivo a Milano. Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell’inno nazionale

di cui un po’ mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all’impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po’ sfasciato.

E’ anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c’è un’aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos’è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c’è un’altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido “Italia, Italia”

c’è solo alle partite.

Ma un po’ per non morire

o forse un po’ per celia

abbiam fatto l’Europa

facciamo anche l’Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

……………………..

  1. Aida, Rino Gaetano

Lei sfogliava i suoi ricordi
le sue istantanee
i suoi tabù
le sue madonne i suoi rosari
e mille mari
e alalà
i suoi vestiti di lino e seta
le calze a rete
Marlene e Charlot
e dopo giugno il gran conflitto
e poi l’Egitto
un’altra età
marce svastiche e federali
sotto i fanali
l’oscurità
e poi il ritorno in un paese diviso
nero nel viso
più rosso d’amore

Aida come sei bella

Aida le tue battaglie
i compromessi
la povertà
i salari bassi la fame bussa
il terrore russo
Cristo e Stalin
Aida la costituente
la democrazia
e chi ce l’ha
e poi trent’anni di safari
fra antilopi e giaguari
sciacalli e lapin

Aida come sei bella

……………………..

  1. In Italia si sta male, Paolo Rossi

In Italia ci sta il mare
Per nuotare e per pescare
Con le spiagge tutte bianche
Gli ombrelloni stesi al sole
In Italia si sta be-ne
In Italia ci sta il sole
Per asciugarsi quando piove
Con la frutta di stagione
Con le pesche e le albicocche
Da mangiare quando hai fame
Ma guarda un po’
Che fortuna stare qua
In mezzo a tanta civiltà
Guarda tu
Che fortuna stare qua
Stare ancora qua
In Italia c’è l’amore
Da quando nasce a quando muore
Se sei brutto o se sei bello
Se sei brutto o se sei bello
Se sei ricco oppure no
In Italia c’è l’amore
Da quando nasce a quando muore
Se sei brutto o se sei bello
Se sei ricco oppure no
In Italia non si può
Ma guarda un po’
Che fortuna stare qua
In mezzo a tanta civiltà
Guarda tu
Che fortuna stare qua
Stare sempre qua
In Italia si sta male
Si sta bene si sta male
In Italia si sta male
Si sta meglio si sta peggio
Si sta bene anziché no

In Italia c’è l’amore
Da quando nasce a quando muore
Se sei brutto o se sei bello
Se sei quasi sempre quello
Se sei ricco oppure no
In Italia si sta male
Si sta bene si sta male
Si sta male si sta bene
Si sta meglio si sta peggio
Si sta bene anziché no
In Italia ci sta il sole
Per asciugarsi quando piove
Con le spiagge tutte bianche
Gli ombrelloni stesi al sole
In Italia si sta bene
In Italia si sta male

Si sta bene si sta male
In Italia si sta male
Si sta bene si sta peggio
Qua si sta come si sta
In Italia c’è l’amore
Da quando nasce a quando muore
Se sei brutto o se sei bello
Se sei ricco oppure no
Se sei basso non lo so
Se sei brutto o se sei bello
Se sei ricco oppure no
Qui ci sto e non ci sto
Se sei brutto o se sei bello
Se sei ricco oppure no
In Italia non ci sto
Ma poi torno però…
Ogni tanto.

……………………..

  1. Viva l’Italia, Francesco De Gregori.

Viva l’Italia, l’Italia liberata,
l’Italia del valzer, l’Italia del caffè.
L’Italia derubata e colpita al cuore,
viva l’Italia, l’Italia che non muore.
Viva l’Italia, presa a tradimento,
l’Italia assassinata dai giornali e dal cemento,
l’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura,
viva l’Italia, l’Italia che non ha paura.
Viva l’Italia, l’Italia che è in mezzo al mare,
l’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare,
l’Italia metà giardino e metà galera,
viva l’Italia, l’Italia tutta intera.
Viva l’Italia, l’Italia che lavora,
l’Italia che si dispera, l’Italia che si innamora,
l’Italia metà dovere e metà fortuna,
viva l’Italia, l’Italia sulla luna.
Viva l’Italia, l’Italia del 12 dicembre,
l’Italia con le bandiere, l’Italia nuda come sempre,
l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste,
viva l’Italia, l’Italia che resiste.

La terra dei cachi, Elio e le storie tese

Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, abusi sessuali abusivi;
tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati, motorini truccati che scippano donne truccate;
il visagista delle dive e’ truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo, una lacrima sul visto:

Italia si’ Italia no Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di si’ puoi dir di no, ma questa e’ la vita.
Prepariamoci un caffe’, non rechiamoci al caffe’ :

c’e’ un commando che ci aspetta per assassinarci un po’.
Commando si’ commando no, commando omicida.
Commando pam commando papapapapam, ma se c’e’ la partita
il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
sventolando il bandierone non piu’ sangue scorrera’ ;
infetto si’ ? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario si’ primario dai, primario fantasma,
io fantasma non saro’ e al tuo plasma dico no.
Se dimentichi le pinze fischiettando ti diro’
“fi fi fi fi fi fi fi fi ti devo una pinza, fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l ‘ ho nella panza”.

Viva il crogiuolo di pinze. Viva il crogiuolo di panze.
Quanti problemi irrisolti ma un cuore grande cosi’.

Italia si’ Italia no Italia gnamme, se famo du spaghi.
Italia sob Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo; un totale di due pizze e l’Italia e’ questa qua.

Fufafifi’ fufafifi’ Italia evviva.
Italia perfetta, perepepe’ nanananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo:
in totale molto pizzo, ma l ‘ Italia non ci sta.
Italia si’ Italia no, Italia si’
ue’, Italia no,ue’ ue’ ue’ ue’ ue’.

Perche’ la terra dei cachi e’ la terra dei cachi. No.


  1. Attività didattiche da fare in classe


a) Una gerarchia di motivi di orgoglio nazionale

(Roberto Cartocci, Diventare grandi in tempi di cinismo, Il Mulino, 2002, pag. 253)

L’orgoglio costituisce una componente dell’identità nazionale.

Ecco una serie di aspetti per i quali ci si può sentire orgogliosi di essere italiani.

Si propone agli studenti di indicare per ciascuno di essi in che misura si sentono orgogliosi (1 = per niente orgoglioso, 2, 3, 4, 5 = molto orgoglioso).

– La nostra storia

– La lingua e la cultura italiana

– Le bellezze naturali del nostro territorio

– Il nostro patrimonio artistico

– La capacità di organizzarsi per il bene comune

– Le garanzie di libertà

– Il benessere economico

– I successi dei nostri campioni sportivi

– I successi della ricerca scientifica contemporanea

– Il modo di trattare gli immigrati

– La capacità di arrangiarsi

– Nel complesso quanto ti senti orgoglioso di essere italiano?

In seguito, si analizzano e discutono i dati emersi dalla classe (eventualmente estendendo l’indagine ad altre classi della scuola).


b) Vado via, resto qui

Sulla scorta degli elenchi proposti dal programma televisivo “Vieni via con me” di Fabio Fazio e Roberto Saviano, si propone alla classe la domanda: “Quali sono i motivi che vi spingono ad abbandonare l’Italia o, al contrario, a restare nel vostro paese?”

Per stimolare la discussione, può essere utile partire dalla lettura dei brani suggeriti “Figlio mio, lascia questo paese” di Pier Luigi Celli, la risposta di Benedetta Tobagi, oppure dal seguente elenco letto durante una delle puntate del programma.

Vado via perché non se ne può più

Vado via perché non mi sento un eroe

Vado via perché preferisco i paesi dove ci si può annoiare

Vado via perché voglio dimenticare tutto quello che ho visto
Resto qui perché voglio sentire le canzoni in italiano

Resto qui per scoprire chi è stato
Vado via perché non voglio più chiedermi cosa c’è sotto
Vado via perché questo è il paese che ha inventato il “me ne frego”
Resto qui per vedere lo Stato conquistare il Sud
Resto qui per vedere il tricolore conquistare il Nord
Vado via per sentirmi normale
Vado via perché non voglio vivere dove comandano le mafie
Resto qui perché non voglio che le mafie continuino a comandare

Vado via perché non sopporto le feste patronali
Vado via perché qui si applaude ai funerali
Vado via perché preferisco mangiare peggio ma vivere meglio
Vado via perché il cinquantennale di Piazza Fontana non lo potrei sopportare
Resto qui perché a dicembre ci sono le arance buone
Vado via perché può bastare
Vado via perché mi è già bastato

Vado via perché dev’essere bellissimo tornare qui da turista
Vado via perché non voglio veder crollare altri pezzi di Pompei
Resto qui perché sono italiano

Al termine della discussione, si propone agli studenti di redigere collettivamente il proprio elenco di “Vado via, resto qui”.


c) LArca di Noè:

l’Italia sta per essere sommersa da un diluvio epocale, cosa mettiamo in salvo sull’arca, perchè si possa ricominciare con il piede giusto?

Si immagini di dover scegliere 10 memorabilia, (eventi storici, personaggi, prodotti artistici e letterari, ecc…) ponendo alla classe la domanda: “Che cosa salvi dell’Italia?”.

A partire dagli elementi emersi, si discute con gli studenti delle ragioni delle scelte e dei criteri utilizzati.

L’Arca potrà anche prendere la forma di un videoclip, che verrà aggiunto ai contenuti del sito di Biennale Democrazia, e proiettato durante le giornate di aprile.


5. Un’esperienza concreta da proporre alla classe

Visita alla mostra FARE GLI ITALIANI

Una grande mostra che ripercorrerà la nostra storia dall’unità nazionale a oggi. La mostra analizzerà il processo attraverso il quale si sono “fatti gli Italiani”, evidenziando le occasioni di integrazione ma anche quelle di esclusione sociale, tappe fondamentali nel lungo e difficile percorso di acquisizione della cittadinanza. L’allestimento sarà spettacolare, ricco di multimedialità e di esperienze interattive.

Sede:
Officine Grandi Riparazioni, Torino

Periodo di apertura:
Marzo-novembre 2011

http://www.italia150.it/Esperienza-Italia/Mostre/Fare-gli-Italiani


6. Film legati alla tematica

La grande guerra, di Mario Monicelli (1959)

Guerra, durata 140 min. Italia.

Il piantone romano Oreste Jacovacci ha promesso al coscritto milanese Giovanni Busacca di farlo riformare dietro compenso; ma Giovanni è fatto abile e, ormai in divisa, cerca Oreste per dargli una lezione. Tuttavia quando si ritrovano, i due diventano amici e finiscono insieme a Tigliano, un piccolo paese nelle retrovie, dove attendono, di giorno in giorno, di essere mandati al fronte. Nel frattempo Giovanni, avendo incontrato Costantine, una ragazza di facili costumi, si concede qualche distrazione, ma alla fine si trova alleggerito del portafoglio. Giunge il giorno temuto: Giovanni ed Oreste sono mandati al fronte, dove fanno conoscenza di nuovi commilitoni: il tenente ex professore di ginnastica, il soldatino che spasima per Lyda Borelli, il cappellano Bonoglia. Viene il Natale, festeggiato alla meglio; passa l’inverno, si annuncia la primavera; riprendono più vivaci i combattimenti. Oreste e Giovanni, mentre sono di pattuglia, incontrano un soldato austriaco: potrebbero ucciderlo, ma non si sentono di farlo. Poi inizia la battaglia: morti e feriti, attacchi e contrattacchi. Oreste e Giovanni sono incaricati di portare un messaggio, ma mentre si dispongono al ritorno si trovano separati dal loro gruppo. Per ripararsi dal freddo indossano cappotti nemici: scoperti dagli austriaci, vengono considerati spie. Potrebbero salvarsi se consentissero a fornire informazioni sulla missione di cui erano incaricati. Dapprima i due esitano e sono quasi disposti a transigere con la coscienza ma di fronte all’arroganza dell’ufficiale che li interroga, Giovanni rifiuta di parlare e viene fucilato. Oreste segue il suo esempio e subisce la stessa sorte. Il loro sacrificio non è inutile: i loro compagni sono all’attacco e la vittoria non è lontana.


Una vita difficile, di Dino Risi (1961)

Drammatico, durata 117 min. Italia.

Silvio Magnozzi ha combattuto nelle formazioni partigiane comuniste; nel Dopoguerra si trova a lavorare come giornalista. L’uomo non accetta però compromessi e la sua vita va incontro a ostacoli economici e sociali di ogni tipo. Per questo motivo la moglie si decide a lasciarlo fino a quando non riuscirà ad elevarsi socialmente. Per riconquistarla Silvio abbandona il suo idealismo e inizia a lavorare e a umiliarsi al soldo di un industriale. È una delle interpretazioni memorabili di Sordi. Risi in uno dei suoi film più riusciti incanala il tipico personaggio sordiano nei meandri amari di un ritratto spietato sull’Italia della ricostruzione.


Il sorpasso, di Dino Risi (1962)

Drammatico, durata 108 min. Italia

Per Bruno, quarantenne ossessionato dalla furia di vivere e dal timore della vecchiaia, correre in auto diventa una rivincita sui fallimenti della vita privata. Coinvolge nelle sue smaniose avventure uno studente timido. Uno dei capolavori della commedia italiana del “boom”. La società di quel periodo è resa con un’euforia rara, un’ammirevole sapienza nel passare dall’agro al dolce, dal comico al grave. Il pubblico lo capì meglio dei critici. “Il gran merito del film è non solo di aver così bene isolato e descritto quel personaggio emblematico, ma anche di averlo giudicato, con la catastrofe finale frutto della sua incoscienza; di avere insomma insinuato qualche dubbio, qualche dubbio di inquietudine nel tempo delle vacche apparentemente grasse…”


I mostri, di Dino Risi (1963)

Commedia, durata 87 min. Italia

Galleria di “mostri” pescati nella realtà quotidiana: dal padre che educa il figlioletto a fregare il prossimo all’avvocato cialtrone, dalla patronessa di premi letterari che mira solo a concupire i giovani letterati al pugile suonato… 20 brevi e brevissimi episodi nei quali si alternano Gassman e Tognazzi per satireggiare i miti e le contraddizioni degli anni ’60. La commedia italiana in pillole, con ferocia “all’insegna della critica più sferzante, della satira più graffiante, senza un filo di forzatura o di compiacimento o di indulgenza o di complicità” (P. D’Agostini).


Allonsanfan, di Paolo e Vittorio Taviani (1974)

Drammatico, durata 115 min. Italia

Nel 1816, dopo il congresso di Vienna e durante la Restaurazione, Fulvio Imbriani, patrizio lombardo, ex giacobino, ex ufficiale di Bonaparte, tradisce i compagni di lotta e la causa di una minoranza rivoluzionaria e velleitaria. Ricorrendo a Visconti e al melodramma per travisarlo criticamente, i Taviani rimescolano ancora le carte della narrazione tradizionale e continuano la loro riflessione sulla sinistra politica. Il film alterna pagine assai belle ad altre squilibrate od opache. Gli splendori della regressione sono descritti meglio che la dialettica della rivoluzione. Inventiva colonna musicale di Ennio Morricone.

C’eravamo tanto amati, di Ettore Scola (1974)

Commedia, durata 121 min. Italia.

Trent’anni di vita italiana, dal 1945 al 1974, attraverso le vicende di tre amici ex partigiani: un portantino comunista (Manfredi), un intellettuale cinefilo di provincia (Satta Flores) e un borghese arricchito (Gassman). S’incontrano a varie riprese, rievocando speranze deluse, ideali traditi, rivoluzioni mancate.


Mediterraneo, di Gabriele Salvatores (1991)

Commedia, durata 95 min. Italia.

Avventure, amori e tribolazioni di otto soldati del Regio Esercito Italiano che nel giugno 1941 sono mandati a presidiare un’isoletta greca dell’Egeo dove rimangono sino all’inverno del 1943. Uno degli otto non tornerà. Senza ambizioni storiche, è una favola, un racconto di formazione, un apologo sull’amicizia virile, sul desiderio di fuga (è dedicato “a tutti quelli che stanno scappando”), sulle difficoltà di crescere. Chiude un’ideale trilogia sul viaggio e su una generazione, quella del regista, formata da Marrakech Express e Turné. Un bel gioco di squadra attoriale e un’accattivante mistura di buffo e patetico con molti stereotipi e qualche leziosaggine ruffiana. Girato nell’isola di Kastellorizo (Megisti in greco). Oscar per il film straniero.


La meglio gioventù, di Marco Tullio Giordana (2001)

Drammatico, durata 360 min. Italia

Gli ultimi 40 anni della Storia italiana sono raccontati attraverso le vicende di una famiglia.
Il protagonista principale è Nicola (da cui parte il racconto) il quale, durante l’alluvione a Firenze del ’66, incontra e si innamora di una donna e la segue per vivere nella città di lei, Torino.
E’ la Torino degli anni ’70, sullo sfondo del terrorismo, dei problemi operai e dell’immigrazione dal Sud. Questo è l’incipit che prosegue fino ai giorni nostri per chiedersi e chiederci che cosa sia cambiato da allora e cosa sia rimasto uguale.
Un film per il quale era previsto solo il passaggio in televisione presente invece a Cannes nella sezione ““Un certain regard”. Un’opera storica raccontata in 6 ore, ma non solo: un affresco che descrive l’evoluzione dei costumi, dei rapporti familiari e le trasformazioni sociali, con qualche riflessione pungente sulla politica del nostro Paese. Dopo tanta televisione che si spaccia per cinema troviamo un film che puo anche passare in televisione ma che soprattutto consente al pubblico di rivisitare passioni, lotte, errori e speranze di una generazione e di quella che e’ venuta dopo.


Noi credevamo, di Mario Martone (2010)

Storico Drammatico, durata 204 min. Italia, Francia

Tre ragazzi del sud (Domenico, Angelo e Salvatore) reagiscono alla pesante repressione borbonica dei moti del 1828 che ha coinvolto le loro famiglie affiliandosi alla Giovane Italia. Attraverso quattro episodi che li vedono a vario titolo coinvolti vengono ripercorse alcune vicende del processo che ha portato all’Unità d’Italia. A partire dall’arrivo nel circolo di Cristina Belgioioso a Parigi e al fallimento del tentativo di uccidere Carlo Alberto nonché all’insuccesso dei moti savoiardi del 1834. Questi eventi porteranno i tre a dividersi. Angelo e Domenico, di origine nobiliare, sceglieranno un percorso diverso da quello di Salvatore, popolano che verrà addirittura accusato da Angelo (ormai votato all’azione violenta ed esemplare) di essere un traditore della causa. Sarà con lo sguardo di Domenico che osserveremo gli esiti di quel processo storico che chiamiamo Risorgimento. Oltre alla divisione in due fronti (all’epoca repubblicani e monarchici con tanto di trasmigrazioni da un fronte all’altro) emerge con assoluta chiarezza la quasi genetica incapacità a fare fronte comune, la spinta inarrestabile a dividersi a diffidare gli uni degli altri all’interno dello stesso schieramento. La lettura con uno sguardo che ha origine al sud ribalta poi le tesi leghiste senza essere nostalgica della dominazione borbonica ma non nascondendosi le problematiche lasciate irrisolte da una fase storica di cui il popolo, come spesso accade, ha finito con l’essere più spettatore o oggetto che non protagonista in grado di decidere del proprio futuro. Il Parlamento vuoto in cui un determinato e non conciliante Crispi pronuncia il suo discorso marca simbolicamente la morte di un’utopia.


Benvenuti al sud, di Luca Miniero (2010)

Commedia, durata 102 min. Italia

Alberto è un mite responsabile delle poste della bassa Brianza a un passo dal tanto sospirato trasferimento nel centro di Milano. Quando gli comunicano che la promessa rilocazione gli è stata revocata per dare precedenza a un collega disabile, Alberto, per non deludere le speranze della moglie e del figlio, decide di fingersi a sua volta disabile. Durante la visita di controllo, commette però un’imprudenza e, come punizione, gli viene imposto un trasferimento in Campania, in un piccolo paese del Cilento. Per un lombardo abitudinario e pieno di preconcetti sul Sud Italia come lui, la prospettiva di vivere almeno due anni in quei luoghi rappresenta un incubo, cui si prepara con un nuovo guardaroba di vestiti leggeri e giubbotto antiproiettile.
Fra l’esagono francese e lo stivale italiano, la cartina socio-culturale del pregiudizio appare specularmente rovesciata. In Francia la commedia popolare brama il sole del Mediterraneo e le palme della Costa Azzurra, mentre teme il freddo della Manica e i cieli grigi delle regioni del Nord; in Italia il sogno dell’uomo padano vive all’ombra della Madunina di Milano e rivolge tutte le possibili stigmatizzazioni verso il Sud pigro e parassitario. Da Giù al Nord a Benvenuti al Sud, l’attraversamento delle Alpi dell’“opera buffa” di Dany Boon ristabilisce una connessione fra discesa geografica e declino civile mediante lo stesso percorso bonario e leggero di sovvertimento dello stereotipo. Il film si presenta infatti come un vero e proprio remake nel senso americano del termine: una replica puntuale degli snodi narrativi e delle principali gag dell’originale francese, adattata al linguaggio partenopeo e allo scontro con la cultura meneghina.


Niente Paura, di Piergiorgio Gay (2010)

Documentario, durata 88 min. Italia

Luciano Ligabue. La sua musica, le sue canzoni, i suoi concerti e le sue riflessioni utilizzati come tela su cui tessere l’ordito di una riflessione sull’Italia in un documentario tanto inusuale quanto efficace. A partire dall’entusiasmo che le sue canzoni suscitano in un pubblico fondamentalmente giovane, Ligabue e Gay compiono un percorso che si fa didattico nel senso più nobile del termine. “Auguro la buonanotte”, dice il cantante alla fine di un concerto, “a tutti quelli che vivono in questo Paese ma che non si sentono in affitto, perché questo Paese è di chi lo abita e non di chi lo governa”. Questo è l’unico riferimento diretto al clima politico attuale perché Gay riesce a sfuggire alla trappola della polemica contemporanea e nessuno di quanti intervengono nomina mai un politico in servizio, né di destra di sinistra. Perché Niente paura non vuole essere un pamphlet usa e getta ma qualcosa di più e di meglio. Vuole provocare una riflessione sui principi fondamentali del nostro vivere civile, sul perché alcuni di essi si siano dissolti e sul perché comunque non debbano prevalere né lo scoramento né, ancor peggio, l’indifferenza. Rivedere Falcone, sentire Pertini oppure, nel presente, ascoltare la figlia di Guido Rossa che ha chiesto (dopo 30 anni di detenzione) che venisse concessa la libertà vigilata all’assassino di suo padre perché lo riteneva un dovere civile nei confronti di un uomo veramente cambiato è importante. Lo è ancor di più perché ci vengono anche ricordati gli articoli di una Costituzione che qualcuno vorrebbe non tanto ‘riformare’ quanto piuttosto cancellare e riscrivere a proprio piacimento. Ligabue è consapevole del suo ruolo e non ha alcuna tentazione ‘grillesca’ (anzi, a un certo punto, una delle intervistate afferma che se deve essere un cantante a ricordarci certi elementi basilari allora l’Italia non è messa bene). Ma le sue canzoni, che si rivelano ‘politiche’ proprio perché parlano d’amore, di quotidianità, di vita insomma si fondono bene con le dichiarazioni di Beppino Englaro, di Margherita Hack, di Fabio Volo, di Don Luigi Ciotti e di moltissimi altri, famosi o no. Come la diciottenne di origine albanese che, in un perfetto italiano, esprime il suo amore ma anche le sue perplessità nei confronti di un’Italia sempre più difficile da comprendere. Un’Italia perfettamente sintetizzata da Paolo Rossi che vorrebbe istituire una sorta di Polizia che oltre ai documenti dovrebbe chiederti se conosci una poesia di Leopardi o se hai letto (e fino a che punto) “I promessi sposi”. Perché in un Paese in cui “tutti vogliono viaggiare in prima, tutti quanti con il drink in mano” chiedendosi, ma senza troppo impegno, “fuori come va” è ora di tornare a guardare quel ‘fuori’ non dimenticando il passato e la cultura che sta alla base di questa società. Soprattutto se si è giovani.

Galleria Fotografica
  • Primo incontro del laboratorio di Biennale Democrazia nella 3A Liceo dell’ “I.T.I. Giuseppe Peano”
  • Primo laboratorio nella 3B meccanici del Plana
  • Al Peano, in 3B elettronica il laboratorio è partito al meglio!
  • Giordano Bruno: In 4 D Biennale Democrazia infiamma la discussione
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