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Criminalità organizzata e mafie

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È possibile la democrazia in un paese mafioso?


1. Introduzione generale al tema.

L‘essenza stessa delle mafie rappresenta un ostacolo allo sviluppo democratico di una nazione, questo perché sta proprio nella natura dell’organizzazione mafiosa puntare ad insediarsi in quei nuclei centrali della vita di un Paese.

Ciò che differenzia le mafie dalle altre organizzazioni criminali è proprio questo nesso con politica ed economia.

É interesse delle mafie tessere rapporti con il potere politica, inquinare l’economia legale e imporre il proprio modello culturale.

Le mafie salvaguardano l’interesse del gruppo di appartenenza a danno della collettività.

Le mafie come fattori inquinanti dell’economia legale: come paradigma due esempi fra tutti, i traffici illeciti portati avanti dalle ecomafie ed il giogo cui sono sottoposte le vittime del pizzo e dell’usura.

Le democrazie come contraltare propongono un modello di società come comunità, in cui si coopera per il bene della collettività e con l’attenzione al singolo e agli ultimi.

Obiettivo delle democrazie è sostenere lo sviluppo del cittadino, valorizzandone talenti e capacità e fornendogli sostegno per superare limiti e difficoltà che gli si possono presentare nel corso della propria vita.


2. Alcune domande di attualizzazione per favorire la discussione.

  • Quanto le mafie erodono lo spazio personale e la libertà di scelta delle persone nei contesti in cui è più forte il radicamento mafioso?
  • Riesci ad immaginare un’Italia libera dalle mafie?
  • Quali sono secondo te le caratteristiche che definiscono una democrazia? Detto ciò quanto l’idea di democrazia è opposta all’idea di mafia?
  • La criminalità organizzata, di stampo mafioso, quanto incide nella vita di un Paese, come l’Italia? È profondamente pericolosa o è un cliché da cartolina, che rovina il nome del Paese all’estero?
  • La mafia è anche comportamento culturale, pensiero mentale. Non si rischia di chiamare, così, tutto mafia, annullandone le peculiarità e livellando gli specifici?
  • La lotta alla mafia, oltre a un piano repressivo-giudiziario, di quali altri livelli dovrebbe tenere conto?
  • Il nesso mafia-politica è centrale o sottovalutato?


3. Alcuni brani e testi di riferimento.

Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi, 1961.

Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, chè mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, chè la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…”

Mario Puzo, Il Padrino, 1969.

Il Don era un vero uomo già all’età di dodici anni. Basso, scuro, magro, viveva nello strano villaggio moresco di Corleone, in Sicilia. Era nato come Vito Andolini, ma quando degli uomini misteriosi vennero per uccidere il figlio dell’uomo che avevano assassinato, sua madre mandò il ragazzo in America presso degli amici. Nella nuova terra mutò il cognome in Corleone, per conservare qualche legame con il villaggio natio. Fu uno dei rari atti sentimentali che ebbe a compiere.”

Giovanni Falcone, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, 1991.

Si muore generalmente perché si è soli o perché si entrati in un gioco troppo grande. Si muore perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato, che lo Stato non è riuscito a proteggere”.

Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori 2006.

Annalisa Durante uccisa a Forcella il 27 marzo 2004 dal fuoco incrociato, quattordici anni. Quattordici anni. Quattordici anni. Ripeterselo è come passarsi una spugna dall’acqua gelata lungo la schiena. Sono stato al funerale di Annalisa Durante. Sono arrivato presto nei pressi della chiesa di Forcella. I fiori non erano ancora giunti, manifesti affissi ovunque, messaggi di cordoglio, lacrime, strazianti ricordi delle compagne di classe. Annalisa è stata uccisa. La serata calda, forse la prima serata veramente calda di questa stagione terribilmente piovosa, Annalisa aveva deciso di trascorrerla giù al palazzo di un’amica. Indossava un vestitino bello e suadente. Aderiva al suo corpo teso e tonico, già abbronzato. Queste serate sembrano nascere apposta per incontrare i ragazzi, e quattordici anni per una ragazza di Forcella è l’età propizia per iniziare a scegliersi un possibile fidanzato da traghettare sino al matrimonio. Le ragazze dei quartieri popolari di Napoli a quattordici anni sembrano già donne vissute. I volti sono abbondantemente dipinti, i seni sono mutati in turgidissimi meloncini dai push-up, portano stivali appuntiti con tacchi che mettono a repentaglio l’incolumità delle caviglie. Devono essere equilibriste provette per reggere il vertiginoso camminare sul basalto, pietra lavica che riveste le strade di Napoli, da sempre nemico di ogni scarpa femminile. Annalisa era bella. Parecchio bella. Con l’amica e una cugina stava ascoltando musica, tutte e tre lanciavano sguardi ai ragazzetti che passavano sui motorini, impennando, sgommando, impegnandosi in gincane rischiosissime tra auto e persone. È un gioco al corteggiamento. Atavico, sempre identico. La musica preferita dalle ragazze di Forcella è quella dei neomelodici, cantanti popolari di un circuito che vende moltissimo nei quartieri popolari napoletani, ma anche palermitani e baresi. Gigi D’Alessio è il mito assoluto. Colui che ce l’ha fatta a uscire dal microcircuito imponendosi in tutta Italia, gli altri, centinaia di altri, sono rimasti invece piccoli idioti di quartiere, divisi per zona, per palazzo, per vicolo. Ognuno ha il suo cantante. D’improvviso però, mentre lo stereo spedisce in aria un acuto gracchiante del neomelodico, due motorini, tirati al massimo, rincorrono qualcuno. Questo scappa, divora la strada con i piedi. Annalisa, sua cugina e l’amica non capiscono, pensano che stanno scherzando, forse si sfidano. Poi gli spari. Le pallottole rimbalzano ovunque. Annalisa è a terra, due pallottole l’hanno raggiunta. Tutti fuggono, le prime teste iniziano ad affacciarsi ai balconi sempre aperti per ascoltare i vicoli. Le urla, l’ambulanza, la corsa in ospedale, l’intero quartiere riempie le strade di curiosità e ansia.”

Art 416 bis Codice Penale

L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri.

Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da quattro a dieci anni nei casi previsti dal primo comma e da cinque a quindici anni nei casi previsti dal secondo comma.

L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito. […]

Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. […]

Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso.”

P. Borsellino

La lotta alla mafia (primo problema da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.”

Carlo Alberto Dalla Chiesa, 10 agosto 1982. Intervista a Giorgio Bocca, La Repubblica.

La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fato grossi investimenti edilizi o commerciali e magari industriali. A me interessa conoscere questa “accumulazione primitiva” del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti a la page. Ma mi interessa ancor di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere.


4. Un’attività didattica da fare in classe.

Le mafie

a) Individuare le parole chiave che caratterizzano il nostro pensiero, oggi, sulle mafie. Quali associazioni mentali vengono spontanee e immediate, nel parlare di mafia?

b) A fronte di tutte le parole emerse, decidiamo di concentrarci su un tema: che cosa contraddistingue le mafie, soprattutto oggi? La citazione del codice penale ci aiuta a riflettere sul modello organizzativo mafioso, in quanto esistente almeno dall’Unità di Italia, seppur in forme più primitive e certamente meno pervasivamente infiltrate nella società, italiana e globale. Non c’è sistema di potere criminale che sia durato tanto, nella storia; chi parla, succede purtroppo ancora, di una banda di gangsters commette un grossolano errore di valutazione. Bisogna considerare il fenomeno della mafia, come qualcosa come una realtà che ha fatto i conti con la globalizzazione, cambiando pelle per adattarsi alla modernità e alla nostra epoca. A questo proposito vale la pena domandarsi, quale sia la percezioni attuale delle mafie, soprattutto al nord; quanto conosciamo il fenomeno o, viceversa, lo consideriamo lontano da noi? Quanto siamo legati a visioni stereotipate, che informazione grossolana o cinema commerciale hanno prodotto nell’immaginario collettivo?

  • Cosa contraddistingue un’organizzazione criminale “semplice”, da una di stampo mafioso?
  • Quali sono le principali attività delle mafie oggi?
  • Chi ne sono i beneficiari?
  • Quanto sono presenti le mafie al nord e quanto incidono sul nostro personale stile di vita (marche contraffatte, droghe leggere…)?

L’antimafia

Individuare i tratti principali dell’azione antimafia, attraverso un lavoro di brainstoming.

La citazione di Borsellino ci rimanda a un problema emblematico: la mafia (e di conseguenza la repressione del fenomeno stesso) non è solo un affare di “guardia e ladri”, non incide cioè soltanto da un punto di vista del mero crimine e della sua punizione; va a toccare corde profonde della società, che riguardano i comportamenti collettivi, il rifiuto delle connivenze, i modelli economici alternativi.

Non è pensabile sconfiggere la mafia, con il “semplice” arresto dei latitanti e la confisca dei patrimoni. Occorre una parte propositiva e preventiva.

  • Pensi che l’antimafia sia efficace nel nostro Paese?
  • È sufficiente un’antimafia repressiva?
  • È possibile sconfiggere le mafie?

L’impegno del singolo e del collettivo

Lavorare sul coinvolgimento concreto dei ragazzi.

  • Cosa posso fare per dare il mio contributo in questa lotta? Mi riguarda?
  • Pensi che lo Stato si impegni nella lotta alle mafie? Quanto c’entro io con lo Stato? E’ anche mia responsabilità? (art.1, comma 2 della nostra Costituzione; diritto /dovere di voto).
  • Cosa può fare un gruppo / classe, per impegnarsi concretamente (Campi di lavoro, sensibilizzazione degli altri studenti, adesione della scuola a Libera)? Riflettere sulla possibilità di coinvolgere un protagonista della lotta alla mafia (giornalista, magistrato, testimone di giustizia), invitandolo a scuola o contattandolo come gruppo.


5. Alcuni film legati alla tematica.

Fortapàsc di Marco Risi. Drammatico, durata 108 min. – Italia 2008.

Giancarlo Siani è un giovane praticante, impiegato “abusivo” per il Mattino col sogno di un contratto giornalistico e di un’inchiesta incriminante contro i boss camorristi e i politici collusi. Lucido e consapevole, Siani si muove tra Napoli e Torre Annunziata, un avamposto abbattuto dal terremoto e frequentato dagli scagnozzi armati di Valentino Gionta. Indaga, si informa, verifica i fatti e poi scrive pagine appassionate e impetuose sui clan camorristi e sulla filosofia camorristica. Era il 1985 quando Vasco Rossi cantava “ogni volta che viene giorno” e un giornalista di ventisei anni moriva assassinato per “ogni volta che era stato coerente”. Gli ingredienti per realizzare l’ennesima agiografia di una vittima (dimenticata) della camorra c’erano tutti. C’era la vicenda personale di Giancarlo Siani, c’erano gli Ottanta, quelli dei tangentisti e dei faccendieri, delle commesse e della corruzione, delle spese inutili e della burocrazia gonfiata, degli omicidi del generale Dalla Chiesa, c’era un Paese sordo alle idee di Siani che scriveva (e lavorava) per un’Italia migliore, c’era l’inevitabile sacrificio finale. Ma Marco Risi non ha realizzato un altro film sulla camorra, concentrandosi esclusivamente sulle tappe di avvicinamento di Siani prima a una consapevolezza di sé e della lotta politica, poi a una strategia letteraria e provocatoria. La camorra è in ogni gesto di chi si oppone a Siani, in ogni silenzio indifferente, nelle grottesche indagini dei carabinieri, nella “clemenza” della magistratura, nelle assurde pratiche rituali di “guappi” spietati e armati, che intendono porre la corruzione e la violenza come norma fondamentale di convivenza sociale. Risi, all’interno del medesimo spazio (Torre Annunziata), distingue due campi contrapposti, determinando il fronteggiarsi delle due parti: i villains che utilizzano la forza della pistola per ascendere l’empireo della carriera camorristica, l’eroe che avvia la sua opera di progressiva e inarrestabile bonifica dell’illegalità con la macchina da scrivere, puntando sul valore della persuasione. Sullo sfondo c’è Napoli e l’isteria collettiva che circondava nel 1985 Maradona, involontario capopopolo, occasione di riscatto, speranza di rivalsa calcistica e sociale, sul ricco Nord da parte del garzone del macellaio e di una città pronta ad osannare e a stritolare. Napoli come corpo corruttore e Napoli generatrice di “antidoti” capaci di riequilibrare moralmente l’ordine esistente. Napoli, ancora, sede del “Mattino”, che invia in un polveroso avamposto battuto dai fuorilegge un giornalista eroico, immagine della possibilità di progresso e fertilità contro l’aridità e l’improduttività dell’arroganza. Dopo il vuoto e la degradazione giovanile dei suoi ragazzi fuori, che hanno la Lazio come sommo ideale, che alimentano la loro forza con un linguaggio osceno, che scelgono la via dell’omologazione passiva e che hanno bisogno del branco per riconoscersi, il regista milanese si concentra su un ragazzo solare senza lati oscuri, isolato dai politici di palazzo in un non luogo sventrato e svuotato per essere riempito dall’eccitazione del business e poi affondato nei liquami chimici. Se il Maradona di Risi (Maradona – La mano de Dios) non ha mai smesso di cercare il suo pallone, Siani non ha mai smesso di cercare la verità e di morire per questo giovanissimo dentro la sua Citroën Mehari e sotto il cielo di Napoli. Risi coglie l’importanza della solitudine in cui viene abbandonato Siani e la spirale dentro cui viene fatto scivolare lentamente fino al massacro del settembre ’85. Con la linearità di un cinema che non ha tesi da dimostrare ma una bruciante urgenza di raccontare, Fortapàsc mette in piazza una classe politica che mira alla propria autoconservazione, una società incivile che chiede la legittimazione di essere incivile e un giornalismo (impiegatizio) che continua a ignorare le proprie responsabilità nel degrado sociale, etico, linguistico e culturale del Paese.

Biùtiful cauntri di Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio, Peppe Ruggiero.

Documentario, durata 83 min. – Italia 2007.

Napule è nu sole amaro, Napule è ‘na carta sporca e nisciuno se ne importa”, tranne Raffaele Del Giudice, un educatore ambientale resistente, che proprio non ci sta a guardare i rifiuti divorare la sua terra e le polveri di amianto saturare il suo cielo. A venticinque chilometri da Napoli, nei comuni di Giuliano, Qualiano, Acerra e Villaricca, il gregge pascola prima di essere abbattuto e gli agnelli, uccisi dalla diossina, si decompongono come fiori sui prati. L’eco-mafia, che produce più morti di una qualsiasi altra attività criminale, non è un espediente narrativo e Raffaele Del Giudice non è un attore.
Biùtifil cauntri, il documentario di Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio e Peppe Ruggiero, è materiale più reale del reale, è un grande storia di impegno civile sostenuta da una poetica originale, che serve a raccontare un territorio umano e geografico lasciato a se stesso. Le fuoriuscite del cobalto dalla fabbrica di Montefibre hanno contaminato fragole e pomodori, le discariche abusive e i chilometri di spazzatura e sacchetti hanno avvelenato pecore e bufale, quelle del pregiato latte bufalino che diventa mozzarella “elastica e resistente al primo morso”.
Gli agricoltori e i pastori campani sono soli contro le sopraffazioni e la ricerca del profitto, contro i trafficanti di rifiuti e la camorra casertana, contro le connivenze tra imprenditoria e politici, contro l’assenza dei controlli e l’arroganza dei poteri forti, contro il silenzio della stampa e la complicità degli organi statali. Nella biùtiful cauntri del titolo, brevi ritratti senza parole ma densi di dolore si alternano con le testimonianze di un’allevatrice di agnelli, di agricoltori, di pastori, di un sindaco, di un procuratore e di un educatore ambientale, in lotta perenne con i crimini del territorio e con una forza che avvelena i loro cari, le loro terre e i prodotti che finiscono sulle nostre tavole.
Gli autori leggono quella realtà facendo un passo indietro, sottraendo la loro presenza agli occhi dello spettatore, declinando il narratore fuori campo e onnisciente per cercare nella campagna campana le persone che avrebbero potuto diventare i personaggi principali, perché il cinema funziona soprattutto attraverso l’identificazione. Entra in gioco in questo modo uno sguardo umano, che i documentaristi coltivano, partecipando (a distanza) alla realtà.
Uno sguardo laico, lontano da diffusi ideologismi, capace di cogliere la crisi etica e politica del Bel Paese, dove il male è “a norma” come le discariche abusive e i reati ambientali non sono contemplati dal Codice penale.

I cento passi di Marco Tullio Giordana. Drammatico, durata 114 min. – Italia 2000.

Alla fine degli anni Sessanta a Cinisi, un piccolo paese siciliano, la mafia domina e controlla la vita quotidiana oltre agli appalti per l’aeroporto di Punta Raisi e il traffico della droga. Il giovane Peppino Impastato entra nel vortice della contestazione piegandola, con originalità, alle esigenze locali. Apre una piccola radio dalla quale fustiga con l’arma dell’ironia i potenti locali fra i quali Zio Tano (Badalamenti). Peppino verrà massacrato facendo passare la sua morte per un suicidio. Se lo si guarda con gli occhiali dell’ideologia I cento passi (che si ispira a fatti realmente accaduti), con la chiusura sulle bandiere rosse e i pugni chiusi del funerale di Impastato, potrebbe sembrare un film di propaganda. In realtà è un film di impegno civile (che non si vergogna di citare il Rosi di Le mani sulla città) che si assume il compito di ricordarci che la lotta a quel complesso fenomeno che passa sotto il nome di mafia non appartiene a una ‘parte’.

Gomorra di Matteo Garrone. Drammatico, durata 135 min. – Italia 2008.

Totò ha tredici anni, aiuta la madre a portare la spesa a domicilio nelle case del vicinato e sogna di affiancare i grandi, quelli che girano in macchina invece che in motorino, che indossano i giubbotti antiproiettile, che contano i soldi e i loro morti. Ma diventare grandi, a Scampia, significa farli i morti, scambiare l’adolescenza con una pistola. O magari, come accade a Marco e Ciro, trovare un arsenale, sparare cannonate che ti fanno sentire invincibile. Puoi mettere paura, ma c’è sempre chi ne ha meno di te. Impossibile fuggire, si sta da una parte o dall’altra, e può accadere che la guerra immischi anche Don Ciro (Imparato), una vita da tranquillo porta-soldi, perché gli ordini sono mutati, il clan s’è spezzato in due. Si può cambiare mestiere, passare come fa Pasquale dalla confezione di abiti d’alta moda in una fabbrica in nero a guidare i camion della camorra in giro per l’Italia, ma non si può uscire dal Sistema che tutto sa e tutto controlla. Quando Roberto si lamenta di un posto redditizio e sicuro nel campo dello smaltimento dei rifiuti tossici, Franco (Servillo), il suo datore di lavoro, lo ammonisce: non creda di essere migliore degli altri. Funziona così, non c’è niente da fare.
Matteo Garrone porta sullo schermo Gomorra, libro-scandalo di Roberto Saviano che in Italia ha venduto oltre un milione di copie, aprendo il sipario sulla luce artificiale e ustionante di una lampada per camorristi vanitosi ed esaltati. Il sole non illumina più le province di Napoli e Caserta, impossibile rischiarare questa terra buia e straniera al punto che gli italiani hanno bisogno dei sottotitoli per decifrarla. Siamo in un altro paese: all’inferno. Che non si trova nel centro della terra, ma solo pochi metri giù dalla statale o sotto la coltivazione delle pesche che mangiamo tutti, nutrite di scorie letali, trasformate in bombe che seminano tumori con la compiacenza dei rispettabili industriali del nord.
Nessun barlume di bellezza dentro questo buio fitto sotto il sole; forse la bellezza è nata qui, per caso o per errore, ma è volata lontano, addosso a Scarlett Johansson, col risultato che chi l’ha partorita è rimasto ancora più solo ed impotente.
Il film di Garrone è crudo e angosciante, ripreso dal vero, musicato dal suono delle grida e degli spari di Scampia. Una volta si diceva “giusto”, quando dire “bello” non aveva senso. Giustissimo, dunque.
Del libro, il film sceglie alcuni fili, li intreccia, s’impone come uno sciroppo avvelenato, senza la possibilità di voltar pagina o sospendere la lettura. Del libro, soprattutto, sposa il punto di vista, da dentro, e tuttavia inevitabilmente fuori, in salvo. “Ma – scrive Saviano – osservare il buco, tenerlo davanti insomma, dà una sensazione strana. Una pesantezza ansiosa. Come avere la verità sullo stomaco”. Gomorra, sullo stomaco, pesa come un macigno. Solo una ruspa potrebbe sollevarlo, per “sversarlo” altrove e chiudere in circolo vizioso, come il suono del film.

In un altro paese di Marco Turco. Documentario, durata 92 min. – Italia 2005.

Quando si parla di mafia i luoghi comuni si sprecano, ma per l’omertoso “certe cose non si possono dire” saranno tempi duri dopo In Un Altro Paese. Tratto dal libro di Alexander Stille “Excellent Cadavers: The Mafia And The Death Of The First Italian Republic”, riadattato da Vania Del Borgo e Marco Turco, In Un Altro Paese è la ricostruzione storica della mafia, dalla Prima Repubblica ai giorni nostri. Stille, agli inizi del 1990, decide di “indagare” sui delitti di mafia, immergendosi nella Palermo di Letizia Battaglia, fotografa di punta nella documentazione di questi crimini, che assurgerà a coscienza visiva dello scrittore statunitense, il quale pubblicherà il testo nel 1995. Dieci anni dopo, a Marco Turco il compito di filmarlo.
La forza di In Un Altro Paese sta proprio nella capacità di ricostruire – a monte di un’attenta analisi delle più disparate fonti pubbliche – l’altalenanza tra il potere mafioso e quello politico, storicizzandola. Ma come reagisce il Paese natale della più grande organizzazione malavitosa del mondo? Questo è il punto di vista attraverso il quale Stille ripercorre gli eventi sul testo e Turco li mette in scena, aggirando così qualsiasi rischio di strumentalizzazione: chiedersi come e quando il Paese ha reagito.
In Un Altro Paese è, dunque, un film con “documenti alla mano”; accattivante per tematiche e tempi di narrazione, nonché meritorio per la tecnica – considerato il copioso rimpasto tra materiale audiovisivo, originale e d’archivio e il necessario utilizzo di numerose, terribili fotografie – e l’indiscutibile coraggio dimostrato. A testimonianza di ciò, il coinvolgimento di ben sei Paesi, tra produttori e finanziatori, che hanno abbracciato e finanziato il progetto.
Un film che risveglia il senso dell’onore (quello vero), della dignità e della giustizia dei tempi in cui l’Italia intraprese la strada per sconfiggere definitivamente la mafia, e lo fa con la naturalezza del risveglio da un sogno, i cui ricordi sono offuscati dalle chiacchiere tanto care al nostro Bel Paese.


6. Un’esperienza concreta da proporre alla classe.

Visita di un bene confiscato nella provincia di Torino, Degli oltre 121 beni confiscati in tutta la regione Piemonte, si propone la visita a uno tra i seguenti beni.

  • Cascina Caccia: ex proprietà della famiglia Belfiore, collocata a San Sebastiano Po, vicino a Chivasso; oggi è luogo di incontro, fattoria didattica (che alleva animali e produce miele) e occasione di formazione per gruppi da tutta Italia.
  • Performing media lab: ex carrozzeria, sita in via Salgari a Torino; oggi è un laboratorio multimediale, dove si lavora sui nuovi linguaggi e la programmazione, sede di incontri e momenti di formazione.
  • Cascina Arzilla: proprietà confiscata alla mafia e riassegnata nel 2004. Sede di un orto didattico, ha ospitato nell’estate del 2010, il primo raduno nazionale dei giovani di Libera.
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  • Giordano Bruno: la 4 AL inaugura la serie di laboratori sull’Italia
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